Si è concluso recentemente uno studio di fase II volto a sperimentare l’utilizzo del nilotinib, utilizzato attualmente esclusivamente nella terapia della leucemia mieloide cronica, nell’ambito del morbo di Parkinson, il che potrebbe aprire le porte a ulteriori ricerche e future opzioni terapeutiche.
Nilotinib è un inibitore della proteina chinasi, ed è indicato in Europa e negli Stati Uniti per il trattamento della jeucemia mieloide cronica con cromosoma Philadelphia positivo, per la sua capacità di inibire la proliferazione e indurre l’apoptosi delle cellule leucemiche.
Esistono studi sia in modelli animali che in piccoli campioni umani che suggeriscono un ruolo di questa molecola nel morbo di Parkinson, in quanto sembrerebbe in grado di:
- aumentare la degradazione della α-synucleina, una proteina che tende ad accumularsi patologicamente nel tessuto cerebrale, e
- aumentare il metabolismo della dopamina, potenzialmente migliorando i sintomi, sia motori che non, presenti nel morbo di Parkinson.
Per quel che riguarda la sperimentazione sull’uomo, è terminato recentemente uno studio di fase II volto a valutare innanzitutto la sicurezza, la tollerabilità e la farmacocinetica di nilotinib in 75 pazienti affetti da morbo di Parkinson. In secondo luogo avrebbe misurato i livelli di alcuni potenziali biomarker nel liquido cefalorachidiano e nel plasma, quali dopamina e suoi metaboliti, nonché α-synucleina e proteina Tau, le proteine patologicamente alterate in questa malattia.I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of American Medical Association, sezione Neurology.
Gli autori affermano che l’utilizzo di nilotinib nei pazienti affetti da morbo di Parkinson si è rivelato relativamente sicuro, anche se non sono mancati gli eventi avversi, anche gravi, in confronto al placebo.
Si è registrato un aumento significativo del metabolismo della dopamina sia nel liquido cefalorachidiano che nel plasma, specialmente a dosaggi più elevati. Inoltre, le proteine patologiche, α-synucleina e tau, sono risultate in concentrazioni ridotte, dimostrando in questo modo anche nell’uomo ciò che era stato ipotizzato in precedenti ricerche basate su modelli animali di neurodegenerazione.
Detto ciò, anche se dal punto di vista laboratoristico questi risultati sono interessanti e meritano ulteriori approfondimenti, dal punto di vista clinico non si è visto alcun risultato, né per quel che riguarda la sintomatologia motoria né per quella cognitiva.
È verposimile, tuttavia, che il campione di studio fosse troppo piccolo per riuscire ad evidenziare variazioni per quel che riguarda l’efficacia, in ogni caso questo studio apre la pista a tutta una serie di ulteriori indagini sul potenziale effetto di nilorinib, o altri farmaci inibitori della proteina chinasi, nella malattia di Parkinson.
Pagan FL et al. “Nilotinib Effects on Safety, Tolerability, and Potential Biomarkers in Parkinson Disease”
JAMA Neurology, dicembre 2019, doi:10.1001/jamaneurol.2019.4200