Miglioramento delle conoscenze e gestione degli eventi avversi immuno-correlati nell’immunoterapia delle malattie tumorali

In questa review Olsen e colleghi, focalizzando l’attenzione sulle reazioni avverse da immunoterapia nel trattamento delle malattie tumorali, evidenziano i progressi fatti negli ultimi anni e propongono quali potrebbero essere le prospettive future.

L’immunoterapia ha rivoluzionato il trattamento e la gestione delle malattie oncologiche; da una parte gli affetti benefici con la distruzione delle cellule maligne; dall’altra quelli nocivi conseguenti all’attivazione del sistema immunitario e il conseguente danno delle cellule sane.

Si parla di immunoterapia dal 1970, quando nei pazienti con tumore della vescica veniva instillato il “Bacillus Calmette Guirin”; da quel momento sono stati sviluppati nuovi agenti: piccole molecole, anticorpi a target monoclonale, citochine sintetiche, virus oncolitici, recettori chimerici antigene specifici (CAR-Ts), inibitori del checkpoint immunitario (ICIs). La percentuale di pazienti con malattie oncologiche elegibili per l’immunoterapia è passata dal 1,54% del 2011 al 43,63% del 2018.

Gli autori suddividono le reazioni avverse più comuni in tre macroaree: generale (astenia, diarrea, rash), organo specifica (colite, epatite, pneumonite, miocardite), muscolo-scheletrica (artrite, artralgia, dolore articolare).

La gestione delle reazioni avverse deve essere promossa il più precocemente possibile; si seguono i principi validi per la terapia dele malattie autoimmuni acute (nella maggior parte dei casi corticosteroidi e sospensione della terapia). Per reazioni avverse specifiche e severe possono essere utilizzati agenti immunomodulanti, ormoni; oppure è possibile non sospendere la terapia, se il paziente ha avuto una buona risposta. Alcuni studi hanno evidenziato una relazione tra la comparsa delle reazioni avverse e il miglioramento della patologia; gli autori suggeriscono che la loro comparsa possa rappresentare un fattore prognostico positivo conseguente all’attivazione del nostro sistema immunitario.

Il presente lavoro, attraverso tabelle e grafici, mette in luce, quali immunoterapici si utilizzano in dipendenza della patologia (tabella 1) e la percentuale di eventi avversi per ogni associazione farmacologica (figura 2). Un’ulteriore sezione pone l’accento sulla gestione delle reazioni avverse suddivise per apparato (cardiocircolatorio, polmonare, cutaneo, gastrointestinale, renale, nervoso, oftalmico, endocrino, muscoloschelettrico) e sulla gestione dell’astenia.

La sfida futura sarà sperimentare nuove associazioni tra immunoterapici, riuscire a predire quali le eventuali reazioni avverse per singolo paziente, ottimizzare le terapie di supporto; tutti elementi che, per il paziente, determineranno un miglioramento della qualità della vita, per il sistema sanitario, una riduzione delle spese.

Bibliografia

T. Anders Olsen1, Tony Zibo Zhuang, Sarah Caulfield, Dylan J. Martini, Jacqueline T. Brown, Bradley C. Carthon, Omer Kucuk, Wayne Harris, Mehmet Asim Bilen and Bassel Nazha. Advances in Knowledge and Management of Immune-Related Adverse Events in Cancer Immunotherapy. Front. Endocrinol., 22 March 2022

Leggi qui l’articolo completo

Uso prolungato di inibitori della pompa protonica e rischio di diabete di tipo 2

Gli inibitori della pompa protonica (PPI) sono farmaci che portano alla soppressione a lungo termine della secrezione acida sia basale che stimolata dai pasti mediante l’inibizione irreversibile della pompa H+/K+ ATPasi (o pompa protonica) sulle cellule parietali gastriche, e rappresentano la terapia di prima scelta nei pazienti con disturbi legati all’acido come malattia da reflusso gastroesofageo, esofago di Barrett e ulcere peptiche e per prevenire il sanguinamento gastrointestinale durante l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei.

Negli ultimi 3 decenni, a causa della loro efficacia, dell’introduzione di composti generici e del loro uso come farmaci da banco in diversi stati, il mercato di questi farmaci è progressivamente aumentato collocandoli tra i primi 10 farmaci più comunemente usati in tutto il mondo; parallelamente, l’espansione del mercato dei PPI ha visto crescenti preoccupazioni riguardo all’uso improprio di questi farmaci nella pratica clinica, nonché ai possibili effetti collaterali e, in particolare, alle reazioni avverse al loro uso prolungato tra cui fratture, ipomagnesemia, carcinoidi gastrici, malattie renali croniche, demenza e diarrea da Clostridium difficile, come evidenziato da diversi studi

È importante sottolineare che i cambiamenti nel microbioma intestinale sono stati ipotizzati per svolgere un ruolo nella fisiopatologia delle malattie metaboliche, tra cui obesità, insulino-resistenza, steatosi epatica non alcolica e diabete; recentemente, infatti, è stato evidenziato che gli IPP possono alterare il normale ambiente batterico a livello dell’esofago distale, dello stomaco, dell’intestino tenue e del colon. Altri potenziali meccanismi sono da imputare all’ipomagnesiemia indotta da PPI (che porta a infammazione di basso grado e resistenza all’insulina), la riduzione dell’IGF-1 e l’attivazione del recettore X del pregnano, che è coinvolta nella regolazione del metabolismo epatico del glucosio.

Ciononostante, i dati clinici sull’associazione tra uso di PPI e diabete sono limitati e incoerenti per trarre conclusioni definitive; pertanto, è ancora dibattuto se l’uso prolungato di inibitori della pompa protonica (PPI) possa influire sulla salute metabolica.

A questo scopo, un gruppo di ricercatori italiani si è occupato di condurre uno studio caso-controllo all’interno di una coorte di 777.420 pazienti recentemente trattati con PPI tra il 2010 e il 2015 in Lombardia, con l’obiettivo di studiare la relazione tra l’uso prolungato di PPI e il rischio di sviluppare il diabete

Un totale di 50.535 persone con diagnosi di diabete fino al 2020 sono state abbinate a un numero uguale di controlli selezionati casualmente dai membri della coorte in base all’età, al sesso e allo stato clinico. L’esposizione al trattamento con PPI è stata valutata in coppie caso-controllo in base al tempo di terapia

I risultati ottenuti hanno evidenziato che l’uso prolungato di PPI è associato ad un aumento del rischio di diabete dopo aggiustamento per diversi potenziali fattori di confondimento. Il rischio era progressivamente più alto con il tempo trascorso in terapia più lungo, risultando il 19%, 43% e 56% più alto nei pazienti che assumevano PPI rispettivamente da 8 settimane a 6 mesi, da 6 mesi a 2 anni e per > 2 anni, rispetto ad una durata del trattamento < 8 settimane. I risultati sono stati coerenti quando le analisi sono state stratificate in base all’età, al sesso e al profilo clinico, con gli OR più elevati tra i pazienti più giovani e quelli con complessità clinica peggiore.

Sebbene siano ancora necessari studi futuri per convalidare i nostri risultati, il presente studio suggerisce che il trattamento prolungato con IPP è associato a un rischio più elevato di sviluppare il diabete, in particolare negli individui più giovani e nei pazienti con maggiore complessità clinica rispetto ad altre popolazioni di pazienti. Se confermati, questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni sia per la salute pubblica che per la pratica clinica, dato l’elevato numero di pazienti trattati con IPP e l’influenza del diabete sulla morbilità e mortalità correlata alle sue possibili complicanze micro e macrovascolari. I medici dovrebbero quindi evitare la prescrizione non necessaria di questa classe di farmaci, in particolare per l’uso a lungo termine.

Bibliografia

Ciardullo S. et al, Prolonged use of proton pump inhibitors and risk of type 2 diabetes: results from a large population-based nested case-control study. J Clin Endocrinol Metab. 2022 Apr

Leggi l’articolo qui.

Rischio cardiovascolare associato all’uso di Remdesivir in pazienti affetti da COVID-19

Icons made by Flat Icons from www.flaticon.com

Il 22 ottobre 2020 la Food and Drug Administration (FDA), l’ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato remdesivir come trattamento farmacologico contro il COVID-19 e pertanto il suo utilizzo in tutto il mondo è stato incrementato durante la pandemia.

Il remdesivir è un farmaco antivirale della classe degli analoghi nucleotidici che ha mostrato un effetto protettivo nei confronti del SARS-CoV-2 inibendone efficacemente la proliferazione in vitro.

Successivi studi randomizzati controllati con placebo e studi in aperto hanno dimostrato che il trattamento con remdesivir ha ridotto il tempo mediano di recupero dei pazienti affetti da COVID-19, con alcuni studi che hanno dimostrato una riduzione della mortalità.

Sebbene l’efficacia di questo farmaco sia stata ampiamente studiata, gli eventi avversi associati non erano ben caratterizzati, dato che il remdesivir finora non era stato utilizzato in modo estensivo nella pratica clinica, pertanto, non c’erano prove sufficienti sulla sicurezza.

Recenti studi hanno permesso di mettere in evidenza un’aumentata incidenza di eventi avversi rari ma letali associati all’uso del remdesivir, quali infarto del miocardio e arresto cardiaco

Un ampio studio osservazionale, registrato su clinicaltrial.gov NCT04314817, ha permesso di caratterizzare le reazioni avverse ai farmaci (ADR) associate al remdesivir utilizzando VigiBase, un database per la segnalazione di casi individuali di sicurezza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal quale sono stati estratti i casi di ADR associati al remdesivir fino al 30 agosto 2020.

Le segnalazioni includevano caratteristiche del paziente (età, sesso e nazionalità), informazioni sul farmaco (indicazioni, dosaggio, regime, via di somministrazione e durata della prescrizione), ADR (tempo di insorgenza, natura e gravità dell’ADR, esiti fetali e mortalità) e informazioni amministrative generali (data della segnalazione, qualifica del segnalatore e Paese di origine).

Poiché è noto che il decorso naturale del COVID-19 comporta un danno al miocardio, è stato fondamentale distinguere gli effetti Cardiovascolari indotti dal farmaco da quelli indotti dal COVID-19

Sono stati eseguiti studi “Case-Non Case” (caso- non caso), una metodica utilizzata per valutare la sicurezza dei farmaci analizzando la sproporzione delle segnalazioni di reazioni avverse ai farmaci nei database di farmacovigilanza. Quando i pazienti esposti a un particolare farmaco (“casi”) presentano una percentuale maggiore di reazioni avverse rispetto a quelli non esposti a quel farmaco (“non casi”), il legame tra la reazione avversa e il singolo farmaco attivo può suggerire un possibile problema di sicurezza.

Il numero di ADR segnalate per remdesivir era di 2107 da febbraio 2020 al 30 agosto 2020 e in questo intervallo il numero totale di ADR per tutti i farmaci segnalate su VigiBase è stato di 1.403.532. Il numero totale di pazienti con COVID-19 inclusi nell’analisi è stato di 5408

Le analisi statistiche hanno permesso di dimostrare che il numero di segnalazioni per reazione avversa cardiovascolare era significativamente più alto con remdesivir rispetto al numero dei “non casi” corrispondente all’intero database. Dopo un aggiustamento per la presenza dei vari fattori confondenti, tra cui, per esempio, l’uso in associazione di corticosteroidi, sono risultati significativamente associati all’uso di remdesivir l’arresto cardiaco (OR aggiustato [aOR]: 1,88, 95% CI: 1,08-3,29), la bradicardia (aOR: 2,09, 95% CI: 1,24-3,53) e l’ipotensione (aOR: 1,67, 95% CI: 1,03-2,73).

Tutte le CV-ADR associate a remdesivir si sono verificate più frequentemente nei pazienti di sesso maschile (51,6%-90,0%) rispetto a quelli di sesso femminile.

Dal momento che, come detto, il COVID-19 può causare lesioni al miocardio e mettere a dura prova il sistema CV attraverso l’attivazione infiammatoria e l’ipossia, per confermare la causa biologica, sono stati progettati esperimenti in vitro utilizzando cellule staminali pluripotenti umane (hPSC) cui sono state aggiunte varie concentrazioni di remdesivir per 24 o 48 ore, ed è stata valutata la vitalità cellulare. I risultati di questi esperimenti hanno dimostrato che il remdesivir ha effettivamente ridotto la vitalità cellulare delle hPSC e che l’effetto citotossico del farmaco aumentava con l’aumentare del dosaggio.

Complessivamente, dunque, i risultati di queste analisi e di queste sperimentazioni a livello di popolazione hanno colto la cardiotossicità associata al remdesivir distinguendola dal decorso naturale di COVID-19. Queste informazioni potrebbero essere d’aiuto ai medici, fornendo una maggiore consapevolezza delle potenziali conseguenze avverse a livello cardiovascolare in seguito all’assunzione di remdesivir, in modo da poter attuare un adeguato monitoraggio cardiovascolare per mantenere un margine di sicurezza tollerabile.

Bibliografia

Se Yong Jung. Cardiovascular events and safety outcomes associated with remdesivir using a World Health Organization international pharmacovigilance database. Clin Transl Sci. 2022 Feb;15(2):501-513.

Leggi l’articolo completo qui .

Profilo di sicurezza di erenumab, galcanezumab e fremanezumab in gravidanza e allattamento: analisi del database di farmacovigilanza dell’OMS

Obiettivo: valutare il profilo di sicurezza di erenumab, galcanezumab e fremanezumab in gravidanza e allattamento.

Metodi: i rapporti sulla sicurezza di sospette reazioni avverse al farmaco sono stati recuperati da VigiBase al 31 dicembre 2019, per una valutazione caso per caso e un’analisi della sproporzionalità utilizzando il reporting odds ratio (ROR).

RISULTATI Ci sono stati 94 rapporti sulla sicurezza: 50 (53,2%) su erenumab, 31 (33,0%) su galcanezumab e 13 (13,8%) su fremanezumab. In cinque (5,3%) rapporti sulla sicurezza, l’esposizione al farmaco si è verificata prima della gravidanza, in 85 (90,4%) durante la gravidanza, in uno (1,1%) durante l’allattamento, in uno (1,1%) per esposizione paterna e in due (2,1% ) il tempo di esposizione era sconosciuto. Su 94 segnalazioni di sicurezza, 51 (54,3%) riguardavano solo l’esposizione al farmaco, mentre 43 (45,7%) hanno inoltre riportato 47 reazioni avverse al farmaco comprese tossicità materna (n = 18), scarso allattamento al seno (n = 1), aborto spontaneo (n = 23), nascita pretermine/prematurità (n = 3) e difetti alla nascita (n = 2). Non vi è stato alcun segnale di disproporzionalità di aborto spontaneo rispetto al database completo (odds ratio di segnalazione 1,46, intervallo di confidenza al 95% 0,97-2,20). Quando i triptani sono stati utilizzati come gruppo di confronto, è stato rilevato un segnale di disproporzionalità per aborto spontaneo in associazione con erenumab, galcanezumab e fremanezumab (odds ratio di segnalazione 1,86, intervallo di confidenza al 95% 1,12-3,13), che non era statisticamente significativo dopo l’esclusione dei rapporti di sicurezza confondenti (report odds ratio 1,21, intervallo di confidenza al 95% 0,67-2,21).

Conclusioni: non sono state riscontrate tossicità materne specifiche, difetti alla nascita maggiori o un aumento delle segnalazioni di aborto spontaneo. Tuttavia, a causa del numero relativamente limitato di reazioni avverse al farmaco riportate e della mancanza di dati sulla sicurezza a lungo termine, è necessaria una sorveglianza continua nelle donne in gravidanza e in allattamento esposte a questi farmaci.

Bibliografia

Noseda R, Bedussi F, Gobbi C, Zecca C, Ceschi A. Safety profile of erenumab, galcanezumab and fremanezumab in pregnancy and lactation: Analysis of the WHO pharmacovigilance database. Cephalalgia. 2021 Jun;41(7):789-798.

Leggi l’abstract dell’articolo qui.

Potenziale nefrotossico di 167 farmaci in pazienti adulti in condizioni critiche

Introduzione

L’approccio alla valutazione della nefrotossicità negli studi sul danno renale acuto associato a farmaci è assai eterogeneo. Alcuni studi utilizzano un elenco di meno di dieci farmaci per la valutazione, mentre altri includono oltre 100 farmaci. Ai farmaci viene generalmente assegnata una classificazione binaria, nefrotossici o non nefrotossici. Ciò semplifica eccessivamente il potenziale nefrotossico dei farmaci in esame.

Obbiettivo

Questo studio mirava ad assegnare un potenziale di nefrotossicità a 167 farmaci utilizzati nell’ambito della terapia intensiva per adulti.

Metodi

Per valutare la nefrotossicità dei farmaci utilizzati in pazienti adulti in condizioni critiche è stato utilizzato uno studio Delphi modificato a tre round, internazionale, interdisciplinare e basato sul web. Ventiquattro clinici esperti internazionali sono stati identificati attraverso il gruppo Acute Disease Quality Initiative e le affiliazioni professionali. Gli individui inclusi rappresentavano i campi della terapia intensiva, della nefrologia e della farmacologia. Dalla letteratura sono stati identificati 159 farmaci, con 8 farmaci aggiuntivi aggiunti dopo il primo round, per un totale di 167 farmaci. L’esito primario era il consenso raggiunto per le valutazioni di nefrotossicità. I punteggi sono stati valutati ogni round per determinare se un consenso è stato raggiunto.

Risultati

La valutazione dell’indice di potenziale nefrotossicità indicava che 20 farmaci erano probabilmente nefrotossici o probabilmente/sicuramente nefrotossici per consenso. Il potenziale nefrotossico è stato valutato sulla base dell’uso standard di farmaci in terapia intensiva e dei seguenti punteggi di consenso: 0 = nessun potenziale nefrotossico, 1 = possibile potenziale nefrotossico, 2 = probabile potenziale nefrotossico, 3 = definito potenziale nefrotossico.

Conclusioni

La valutazione dell’indice della potenziale nefrotossicità consente di assegnare la priorità ai farmaci corretti con un maggiore potenziale nefrotossico per i programmi istituzionali di gestione delle nefrotossicità. Inoltre, la valutazione dell’indice di potenziale nefrotossicità fornisce omogeneità per la ricerca e indicazioni su valutazioni dettagliate in base alla gravità per ciascun farmaco.

In conclusione, sono state generate valutazioni di consenso sulla nefrotossicità di 167 farmaci utilizzati in pazienti critici. Venti farmaci sono stati identificati come aventi un potenziale nefrotossico da probabile a definito. Un’ulteriore convalida delle valutazioni del potenziale nefrotossico dei farmaci è importante per la standardizzazione nella ricerca e nella valutazione della terapia farmacologica.

Bibliografia

Gray MP, Barreto EF, Schreier DJ, Kellum JA, Suh K, Kashani KB, Rule AD, Kane-Gill SL. Consensus Obtained for the Nephrotoxic Potential of 167 Drugs in Adult Critically Ill Patients Using a Modified Delphi Method. Drug Saf. 2022 Apr;45(4):389-398.

Leggi qui lo studio completo.

Aggiornamento sulla pratica clinica della revoca della prescrizione degli inibitori di pompa protonica: revisione di esperti.

Gli inibitori della pompa protonica (PPI) sono tra i farmaci più comunemente usati al mondo. Sviluppati per il trattamento e la prevenzione delle patologie acido correlate del tratto gastrointestinale superiore, queste molecole vengono utilizzate sempre più per indicazioni in cui i loro benefici sono meno certi. La prescrizione eccessiva di PPI impone un costo economico e contribuisce alla polifarmacoterapia. Inoltre, l’uso di PPI è stato sempre più collegato a una serie di eventi avversi (eventi avversi associati a PPI [PAAE]). Pertanto, la sospensione della prescrizione degli IPP è una strategia importante per ridurre il carico di farmaci riducendo i costi reali e i rischi teorici. Lo scopo di questo aggiornamento clinico era di fornire dichiarazioni di Best Practice Advice (BPA) su come affrontare la revoca della prescrizione di PPI nei pazienti ambulatoriali.

Metodi: il nostro principio guida era che, sebbene gli IPP siano generalmente sicuri, i pazienti non dovrebbero usare alcun farmaco quando non vi è una ragionevole aspettativa di beneficio basata su prove scientifiche o sulla risposta al trattamento precedente. I prescrittori sono responsabili di determinare se l’uso di PPI è assolutamente o condizionatamente indicato e, quando esiste incertezza, di incorporare le prospettive del paziente nel processo decisionale di PPI.

Abbiamo delineato in collaborazione una “mappa del processo” di alto livello dell’approccio concettuale alla deprescrizione degli IPP in un contesto clinico. Abbiamo identificato i seguenti 3 domini chiave che richiedevano una guida BPA: documentazione dell’indicazione PPI; identificare i candidati idonei da prendere in considerazione per la revoca della prescrizione; e ottimizzare con successo la revoca della prescrizione. I coautori hanno redatto 1 o più potenziali BPA, supportati dalla revisione della letteratura, per ciascun dominio. Tutti i coautori hanno esaminato, modificato e selezionato o rifiutato le bozze di BPA per l’inclusione nell’elenco finale presentato all’American Gastroenterological Association Governing Board. Poiché questa non era una revisione sistematica, non abbiamo effettuato una valutazione formale della qualità delle prove o della forza delle considerazioni presentate.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 1: Tutti i pazienti che assumono un PPI devono avere una revisione regolare delle indicazioni in corso per l’uso e la documentazione di tale indicazione. Questa revisione dovrebbe essere responsabilità del fornitore di cure primarie del paziente.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 2: Tutti i pazienti senza un’indicazione definitiva per PPI cronico dovrebbero essere presi in considerazione per un tentativo di sospensione della prescrizione.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 3: La maggior parte dei pazienti con un’indicazione per l’uso cronico di PPI che assumono una dose due volte al giorno dovrebbe essere presa in considerazione per il passaggio a PPI una volta al giorno.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 4: I pazienti con malattia da reflusso gastroesofageo complicata, come quelli con una storia di grave esofagite erosiva, ulcera esofagea o stenosi peptica, non dovrebbero generalmente essere presi in considerazione per l’interruzione del PPI.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 5: I pazienti con esofago di Barrett noto, esofagite eosinofila o fibrosi polmonare idiopatica non dovrebbero generalmente essere presi in considerazione per un tentativo di revoca della prescrizione.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 6: Gli utilizzatori di PPI devono essere valutati per il rischio di emorragia gastrointestinale superiore utilizzando una strategia basata sull’evidenza prima della revoca della prescrizione.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 7: I pazienti ad alto rischio di emorragia del tratto gastrointestinale superiore non devono essere presi in considerazione per la revoca della prescrizione di PPI.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 8: I pazienti che interrompono la terapia con PPI a lungo termine devono essere informati che possono sviluppare sintomi transitori del tratto gastrointestinale superiore a causa dell’ipersecrezione acida di rimbalzo.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 9: Quando si deprescrivono gli IPP, si può prendere in considerazione la riduzione della dose o l’interruzione improvvisa.

CONSIGLI PER LE MIGLIORI PRATICHE 10: La decisione di interrompere gli IPP dovrebbe basarsi esclusivamente sulla mancanza di un’indicazione per l’uso dei PPI e non a causa della preoccupazione per gli IPA. La presenza di un PAAE o una storia di un PAAE in un utente PPI corrente non è un’indicazione indipendente per il ritiro di PPI. Allo stesso modo, anche la presenza di fattori di rischio sottostanti per lo sviluppo di un evento avverso associato all’uso di PPI non dovrebbe essere un’indicazione indipendente per la sospensione di PPI.

Bibliografia

Targownik LE, Fisher DA, Saini SD. AGA Clinical Practice Update on De-Prescribing of Proton Pump Inhibitors: Expert Review. Gastroenterology. 2022 Apr;162(4):1334-1342.

Leggi l’abstract dell’articolo qui.

Concentrazioni di farmaci antiepilettici durante la gravidanza: Risultati dello studio Maternal Outcomes and Neurodevelopmental Effects of Antiepileptic Drugs (MONEAD)

Durante la gravidanza in donne con epilessia, concentrazioni ematiche più basse di farmaci antiepilettici possono avere conseguenze cliniche avverse.

Obiettivo: Caratterizzare i cambiamenti di concentrazione associati alla gravidanza per diversi farmaci antiepilettici tra le donne con epilessia.

Disegno, impostazione e partecipanti: L’iscrizione a questo studio di coorte prospettico e osservazionale, Maternal Outcomes and Neurodevelopmental Effects of Antiepileptic Drugs (MONEAD), si è verificato dal 19 dicembre 2012 al 11 febbraio 2016, in 20 siti statunitensi. Le coorti iscritte includevano donne incinte con epilessia e partecipanti di controllo non incinte con epilessia. I criteri di inclusione erano donne di età compresa tra 14 e 45 anni, un quoziente di intelligenza superiore a 70 punti e, per la coorte di donne incinte, un’età gestazionale fetale inferiore a 20 settimane. Un totale di 1087 donne è stato valutato per l’ammissibilità; 397 sono state escluse e 230 hanno rifiutato. I dati sono stati analizzati dal 1° maggio 2014 al 30 giugno 2021.

Esposizione: concentrazioni plasmatiche del farmaco nelle donne che assumono la monoterapia o in combinazione con farmaci non interagenti. La coorte di donne incinte è stata monitorata fino a 9 mesi dopo il parto, con punti di tempo simili per i partecipanti al controllo.

Risultati e misure principali: Le concentrazioni normalizzate dalla dose sono state calcolate come concentrazioni plasmatiche totali o non legate dei farmaci divise per la dose totale giornaliera. La flebotomia è stata eseguita durante 4 visite di studio in gravidanza e 3 visite post partum per le donne incinte e 7 visite in 18 mesi per i partecipanti di controllo. L’ipotesi primaria era quella di testare i cambiamenti in gravidanza delle concentrazioni dose-normalizzate da campioni postpartum non gravide rispetto a quelle delle partecipanti di controllo.

Risultati: Delle 351 donne incinte e dei 109 partecipanti di controllo iscritti al MONEAD, 326 donne incinte (età mediana [range], 29 [19-43] anni) e 104 partecipanti di controllo (età mediana [range], 29 [16-43] anni) hanno soddisfatto i criteri di ammissibilità per questa analisi. Rispetto ai valori post-partum, le concentrazioni normalizzate alla dose durante la gravidanza sono state diminuite fino al 56,1% per la lamotrigina (da 15,60 μg/L/mg a 6,85 μg/L/mg; P < .001), 36,8% per il levetiracetam (da 11,33 μg/L/mg a 7,16 μg/L/mg; P < .001), 17,3% per la carbamazepina (da 11,56 μg/L/mg a 7. 97 μg/L/mg; P = .03), 32,6% per l’oxcarbazepina (da 11,55 μg/L/mg a 7,79 μg/L/mg; P < .001), 30,6% per l’oxcarbazepina non legata (da 6,15 μg/L/mg a 4. 27 μg/L/mg; P < .001), 39,9% per lacosamide (26,14 μg/L/mg a 15,71 μg/L/mg; P < .001), e 29,8% per zonisamide (40,12 μg/L/mg a 28,15 μg/L/mg; P < .001). Nessun cambiamento significativo si è verificato per la carbamazepina non legata, carbamazepina-10,11-epoxide e topiramato, anche se una diminuzione è stata osservata per il topiramato (29,83 μg/L/mg a 13,77 μg/L/mg; P = .18). Inoltre, rispetto alle concentrazioni normalizzate dalla dose dei partecipanti al controllo, le concentrazioni mediane normalizzate dalla dose in gravidanza (SE) sono diminuite significativamente per settimana di età gestazionale: carbamazepina, -0,14 (0,06) μg/L/mg (P = .02); carbamazepina non legata, -0,04 (0,01) μg/L/mg (P = .01); lacosamide, -0,23 (0,07) μg/L/mg (P < .001); lamotrigina, -0. 20 (0,02) μg/L/mg (P < .001); levetiracetam, -0,06 (0,03) μg/L/mg (P = .01); oxcarbazepina, -0,14 (0,04) μg/L/mg (P < .001); oxcarbazepina non legata, -0,11 (0,03) μg/L/mg (P < . 001); e zonisamide, -0,53 (0,14) μg/L/mg (P < .001) tranne che per il topiramato (-0,35 [0,20] μg/L/mg a settimana) e la carbamazepina-10,11-epoxide (0,02 [0,01] μg/L/mg).

Conclusioni e rilevanza: I risultati dello studio suggeriscono che il monitoraggio del farmaco terapeutico dovrebbe iniziare all’inizio della gravidanza e che dosi crescenti di questi anticonvulsivanti possono essere necessarie durante il corso della gravidanza.

Leggi l’articolo qui.

Associazione della tipologia di anticoagulante orale con gli esiti clinici avversi in pazienti che continuano la terapia anticoagulante oltre i 90 giorni dopo il ricovero per tromboembolia venosa

Le linee guida per la gestione del tromboembolismo venoso (TEV) raccomandano almeno 90 giorni di terapia con anticoagulanti orali. Esistono prove limitate sul farmaco ottimale per continuare la terapia oltre i 90 giorni.

Obiettivo: Confrontare la prescrizione di apixaban, rivaroxaban o warfarin dopo 90 giorni iniziali di terapia anticoagulante per gli esiti di ospedalizzazione per TEV ricorrente, sanguinamento maggiore e morte.

Disegno dello studio: Si tratta di uno studio di coorte retrospettivo esplorativo che ha utilizzato i dati da Medicare fee-for-service (2009-2017) e da 2 database di assicurazioni sanitarie commerciali (2004-2018) e ha incluso 64642 adulti che hanno iniziato l’anticoagulazione orale dopo la dimissione dall’ospedale per TEV e hanno continuato il trattamento oltre i 90 giorni.

Esposizioni: Apixaban, rivaroxaban o warfarin prescritti dopo un trattamento iniziale di 90 giorni per TEV.

Esiti e misure principali: Gli esiti primari includevano l’ospedalizzazione per TEV ricorrente e l’ospedalizzazione per emorragia maggiore. Le analisi sono state aggiustate utilizzando la ponderazione del punteggio di propensione. I pazienti sono stati seguiti dalla fine dell’episodio iniziale di trattamento di 90 giorni fino alla cessazione del trattamento, all’esito, al decesso, al disinserimento o alla fine dei dati disponibili. I modelli proporzionali di Cox ponderati sono stati utilizzati per stimare gli hazard ratio (HR) e gli IC al 95%.

Risultati: Lo studio ha incluso 9167 pazienti a cui è stato prescritto apixaban (età media [SD], 71 [14] anni; 5491 [59,9%] donne), 12 468 pazienti a cui è stato prescritto rivaroxaban (età media [SD], 69 [14] anni; 7067 [56,7%] donne), e 43 007 pazienti a cui è stato prescritto warfarin (età media [SD], 70 [15] anni; 25 404 [59,1%] donne). La mediana (IQR) del follow-up era di 109 (59-228) giorni per il TEV ricorrente e 108 (58-226) giorni per l’esito del sanguinamento maggiore. Dopo la ponderazione del punteggio di propensione, il tasso di incidenza di ospedalizzazione per TEV ricorrente era significativamente più basso per apixaban rispetto al warfarin (9,8 vs 13,5 per 1000 anni-persona; HR, 0,69 [95% CI, 0,49-0. 99]), ma i tassi di incidenza non erano significativamente diversi tra apixaban e rivaroxaban (9,8 vs 11,6 per 1000 anni-persona; HR, 0,80 [95% CI, 0,53-1,19]) o rivaroxaban e warfarin (HR, 0,87 [95% CI, 0,65-1,16]). I tassi di ospedalizzazione per emorragia maggiore erano 44,4 per 1000 anni-persona per apixaban, 50,0 per 1000 anni-persona per rivaroxaban, e 47,1 per 1000 anni-persona per warfarin, producendo HR di 0. 92 (95% CI, 0,78-1,09) per apixaban vs warfarin, 0,86 (95% CI, 0,71-1,04) per apixaban vs rivaroxaban, e 1,07 (95% CI, 0,93-1,24) per rivaroxaban vs warfarin.

Conclusioni e rilevanza: In questa analisi esplorativa dei pazienti a cui è stata prescritta una terapia anticoagulante orale di lunga durata dopo l’ospedalizzazione per TEV, le prescrizioni di apixaban oltre i 90 giorni, rispetto al warfarin oltre i 90 giorni, erano significativamente associate a un tasso modestamente inferiore di ospedalizzazione per TEV ricorrente, ma nessuna differenza significativa nel tasso di ospedalizzazione per sanguinamento maggiore. Non ci sono state differenze significative per i confronti tra apixaban vs rivaroxaban o rivaroxaban vs warfarin.

Bibliografia

Pawar A, Gagne JJ, Gopalakrishnan C, et al. Association of Type of Oral Anticoagulant Dispensed With Adverse Clinical Outcomes in Patients Extending Anticoagulation Therapy Beyond 90 Days After Hospitalization for Venous Thromboembolism. JAMA. 2022;327(11):1051–1060.

Leggi l’abstract dell’articolo qui

Associazione tra polisolfato di pentosano sodico e disturbi della retina.

Il Polisolfato di pentosano sodico è un medicinale utilizzato per il trattamento degli adulti affetti da cistite interstiziale.

La cistite interstiziale, nota anche come sindrome della vescica dolorosa, è una condizione cronica della vescica caratterizzata da pressione e dolore vescicale e pelvico e da un’urgente necessità di urinare frequentemente. Colpisce prevalentemente le donne. Non ha alcun meccanismo causale noto. Le stime della prevalenza della patologia variano ampiamente, da meno di 5 a più di 100 per 100000.

Le opzioni di trattamento per la cistite interstiziale includono cambiamenti nello stile di vita come modifiche alla dieta, allenamento della vescica, fisioterapia, farmaci, procedure vescicali come idrodistensione e, in rari casi, chirurgia.

Il trattamento farmacologico per la cistite interstiziale comprende farmaci da banco (es. antistaminici, antinfiammatori non steroidei) e altri farmaci aspecifici quali antidepressivi triciclici e ciclosporina.

L’unico farmaco specifico, approvato per il trattamento della cistite interstiziale è il polisolfato di pentosano sodico.

Nonostante abbia ricevuto l’approvazione della FDA fin dal 1996, solo di recente sono emerse preoccupazioni riguardo all’associazione tra polisolfato di pentosano sodico e maculopatia, caratterizzata da difficoltà nella lettura e nell’adattamento della visione al buio. La maculopatia sembra essere associata ad un’esposizione a lungo termine al polisolfato di pentosano sodico. La durata mediana dell’uso del farmaco è di almeno 15 anni, sebbene alcuni pazienti abbiano segnalato durate più brevi.

L’associazione tra maculopatia e polisolfato di pentosano sodico è stata osservata mediante un’analisi di disproporzionalità condotta sul database di segnalazione spontanea della FDA (FAERS), che ha confrontato le segnalazioni di eventi avversi raccolte tra il 2013 e il 2020 per il polisolfato di pentosano sodico con quelle associate ad altri farmaci assunti per la cistite, i disturbi della vescica e il dolore alla vescica.

C’erano 2775 segnalazioni disponibili per l’analisi nel gruppo col polisolfato di pentosano sodico (di cui 1966 erano donne [70,9%]) e 6833 segnalazioni nel gruppo degli altri farmaci (di cui 4036 [59,1%] donne).

La proporzione di eventi avversi per qualsiasi evento maculare rispetto a tutti gli altri eventi è stata più elevata tra gli utilizzatori di polisolfato di pentosano sodico rispetto a quelli che utilizzano altri farmaci per la cistite interstiziale (proportional reporting ratio 1,21, limiti di confidenza al 95% da 1,01 a 1,44).

Negli utilizzatori di polisolfato di pentosano sodico, rispetto agli utilizzatori di altri farmaci, sono state proporzionalmente più comuni le segnalazioni di degenerazione maculare (20 [0,8%] rispetto a 15 [0,2%]), di maculopatie (83 [3,4%] rispetto a 2 [0,03%]), distrofie retiniche (3 [0,1%] rispetto a nessuna), danno retinico (5 [0,2%] rispetto a nessuna) e tossicità retinica (3 [0,1%] rispetto a nessuna).

I risultati di questo studio dovrebbero essere interpretati alla luce di diversi limiti, derivanti principalmente dai ben noti limiti dei dati FAERS che si basa su segnalazioni spontanee di eventi avversi. Tutte le informazioni sono auto-riferite e non soggette a convalida e non è possibile dedurre un’associazione causale tra i farmaci segnalati e gli eventi avversi in un dato rapporto. A differenza di uno studio di coorte, la mancanza di un vero denominatore (ovvero il numero di persone a cui viene prescritto o utilizzato un prodotto) preclude il calcolo dei tassi di incidenza.

Tuttavia questi dati si aggiungono alla crescente evidenza che l’uso di polisolfato di pentosano sodico è associato ad un aumentato rischio di maculopatia e questo suggerirebbe una maggiore cautela nei pazienti in terapia con questo farmaco, che dovrebbero essere sottoposti a regolari controlli della vista per consentire l’individuazione precoce di eventuali disturbi retinici.

Bibliografia:

McGwin G, MacLennan P, et al. Association between pentosan polysulfate sodium and retinal disorders. JAMA Ophthalmol 2021.

Leggi qui l’abstract dell’articolo.

Il Tramadolo è associato ad un rischio di mortalità più elevato rispetto alla codeina.

Il tramadolo è un farmaco di origine sintetica appartenente alla classe degli antidolorifici oppioidi.

È impiegato nel trattamento di stati dolorosi, in particolare per gestire il dolore cronico. E’ un farmaco capace di interagire con i recettori oppioidi ed è inoltre in grado di inibire il reuptake di noradrenalina e serotonina.

Gli oppioidi sono utilizzati nel trattamento farmaceutico del dolore oncologico da moderato a grave e sono comunemente prescritti per il dolore cronico non oncologico quando le terapie alternative non forniscono più un sollievo sufficiente.

Fino a poco tempo fa il tramadolo è stato considerato un oppioide relativamente sicuro ed è stato fortemente raccomandato dall’American Academy of Orthopaedic Surgeons per i pazienti affetti da artrosi sintomatica del ginocchio. Tra il 2019 e il 2020 è stato l’oppioide sintetico più prescritto nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Spagna.

Gli effetti avversi comuni non pericolosi per la vita (es. mal di testa, prurito e nausea) del tramadolo sono ben conosciuti, mentre finora si sapeva poco riguardo ai possibili eventi avversi fatali. Uno studio osservazionale del 2020, ha mostrato che i pazienti con osteoartrite trattati con tramadolo avevano un rischio di morte dal 20% al 50% più elevato durante il primo anno di trattamento rispetto a quelli trattati con FANS.

In seguito a queste osservazioni e dato l’uso diffuso del tramadolo per gestire un ampio spettro di condizioni dolorose, il passo successivo è stato quello di misurare il suo profilo di sicurezza mettendolo a confronto con altri farmaci.

Uno studio di coorte retrospettivo basato sulla popolazione ha confrontato i rischi di mortalità per tutte le cause, eventi cardiovascolari, fratture, costipazione, delirio, cadute, abuso/dipendenza da oppiacei e disturbi del sonno tra i pazienti in trattamento con tramadolo e pazienti che hanno ricevuto codeina. La codeina è stata utilizzata come comparatore poiché sia questa che ​​il tramadolo sono oppioidi deboli con una copertura di indicazione simile.

La coorte comprendeva persone di età pari o superiore a 18 anni a cui erano stati prescritti tramadolo o codeina dal 2007 al 2017.

Dei 368960 pazienti partecipanti cui è stato prescritto tramadolo o codeina tra il 1° gennaio 2007 e il 31 dicembre 2017, a 184480 è stato dispensato tramadolo e a 184480 codeina. L’età media dei pazienti era di 52,7 anni nel braccio tramadolo e 53,5 anni nel braccio codeina e la prevalenza del cancro era rispettivamente del 3,2% e del 3,3%. Le diagnosi più comuni in questa coorte erano mal di schiena (47,5% vs 48,5%), dolore al collo/spalla (28,6% vs 29,5%) e osteoartrite (15,3% vs 15,5%).

Rispetto alla codeina, l’uso di tramadolo è associato a un rischio significativamente più elevato di mortalità (13,00 vs 5,61 per 1000 anni-persona; HR 2,31), a un rischio più elevato di eventi cardiovascolari (10,03 vs 8,67 per 1000 anni-persona; HR, 1,15) e fratture (12,26 vs 8,13 per 1000 anni-persona, HR, 1,50).

È stato dimostrato inoltre che l’aumento del rischio di mortalità associato al tramadolo è significativamente più alto nelle persone più giovani rispetto a quelle più anziane e nelle donne rispetto agli uomini.

In conclusione, sebbene vi siano fattori confondenti e limitazioni in questo studio retrospettivo legati per esempio al fatto che i prescrittori del tramadolo o della codeina utilizzassero dei criteri di selezione sulla base della sintomatologia dei pazienti nella preferenza di un farmaco o dell’altro, i dati ottenuti suggeriscono una maggiore cautela nell’utilizzo del tramadolo.

Bibliografia: Xie J et al. Association of Tramadol vs Codeine Prescription Dispensation With Mortality and Other Adverse Clinical Outcomes. J Am Med Assoc. 2021;326(15):1504-1515, 1483-1484.

Leggi qui l’articolo.

LinkedIn
Share
Instagram
WhatsApp